Il digitale offre grandi opportunità per chi sceglie di divulgare le proprie idee. Responsabilità e consapevolezza le componenti necessarie per comunicare online in modo “ampio”.
Nel corso della tua carriera hai parlato spesso del potere che le parole hanno in rete, spesso utilizzate impropriamente sotto forma di insulti o minacce, specialmente nei confronti delle donne. Su questo è nato anche un libro: “L’antidoto”.
Qual è per te l’antidoto da utilizzare per risolvere questo fenomeno sociale ancora troppo presente? Secondo il tuo punto di vista da dove nasce?
Ritengo di aver una certa esperienza sul tema. Sono presente online dal 1995 e mi definisco una “vecchia” utente degli strumenti della rete.
La questione dell’odio online penso si riferisca sia a uomini che a donne ma in generale colpisce maggiormente chi è esposto a una marginalizzazione sociale.
Nel momento in cui sono diventata un micro-personaggio pubblico mi sono accorta della discriminazione specifica nei confronti delle donne.
Nel corso del tempo, infatti, mi sono resa conto che è considerata molto più insopportabile l’assertività femminile, percepita come saccente e aggressiva, a differenza di quella maschile, valutata positivamente.
Ciò è imputato a tutte le donne che esprimono la propria voce pubblicamente.
Esiste un problema specifico ovvero l’incapacità di lasciare il turno di parola alla donna. Il menspreading è un fenomeno attraverso cui gli uomini sentono di avere il diritto di appropriarsi dello spazio, anche in ambito comunicativo.
Nonostante il libro si intitoli “L’antidoto”, non penso esista un antidoto universale. Essendo una studiosa quello che faccio è parlare di queste tematiche cercando di creare un minimo di consapevolezza in più.
Sempre in “L’antidoto” compare in modo ricorrente il concetto dei “leoni marini”.
Cosa rappresentano per te? Perché hai deciso di utilizzare proprio questo termine?
In realtà non ho inventato io questo termine, era già presente all’interno del contesto degli studi sulla comunicazione digitale.
Il “leone marino” è un animale grosso e goffo come gli utenti in rete che, durante una discussione, si intromettono scrivendo commenti pedanti. L’unico obiettivo è bloccare la conversazione.
Il sealioning costringe gli autori e autrici di un post a rispondere a una continua richiesta di informazioni (facilmente reperibili online) e questo comporta una significativa perdita di tempo.
Abbiamo scoperto che buona parte dei tuoi libri sono stati commissionati da editrici donne. Questo secondo te ha un significato socio-culturale? Ritieni che nelle donne ci sia maggiore interesse nei temi che proponi?
Anch’io mi sono posta la stessa domanda.
Forse perché le donne riescono a trovarmi con più facilità a causa di un interesse comune che differisce dai loro analoghi maschili.
Nonostante ciò ho lavorato anche con uomini dalle stesse sensibilità riscontrate nelle “editrix”.
Sarebbe molto interessante approfondire questo tema attraverso maggiori ricerche sul campo, così da rispondere più concretamente.
Quando hai iniziato a pensare ad una lingua inclusiva?
Non amo definirlo “linguaggio inclusivo", è un termine che, secondo il mio punto di vista, racchiude in sé molti limiti. Includere implica la presenza di un “normale” che include un ”diverso”.
Motivo per cui non utilizzo il termine “linguaggio inclusivo”, ma preferisco parlare di linguaggio ampio.
Non ricordo esattamente il momento in cui ho iniziato a pensarci. Nel 2002, durante la stesura della mia tesi, ho avuto la possibilità di studiare le comunità virtuali; da lì sono arrivata a varie realtà marginalizzate, e così nel tempo ho compreso che non tutte le persone hanno le stesse possibilità di fare cose con le parole.
Da lì ho iniziato a indagare le varie comunità marginalizzate, partendo da ciò che più mi caratterizzava: la discriminazione di genere presente a livello strutturale nella società.
Studiando la questione di genere mi sono accorta di non poter prendere in considerazione solo una parte della società e così ho cominciato ad analizzare anche la questione dei generi non conformi e delle altre categorie di persone discriminate, come quelle con disabilità o quelle economicamente svantaggiate.
Da qui nasce il desiderio di parlare di linguaggio ampio.
Come il digitale può essere di supporto al grande tema della D&I? Rispetto a cosa può esserne invece ostacolo?
L’ostacolo principale è pensare che tuttə siano presenti online.
Internet non è distribuito in maniera equa, di conseguenza non è possibile arrivare a tutti nello stesso modo utilizzando i medesimi strumenti.
In questo momento c’è una grossa difficoltà nel percepirsi come parte di una società, credo che ci sia assolutamente bisogno di lavorare direttamente sul campo, vedersi dal vivo, annusarsi, parlarsi e perché no anche litigare.
Internet è molto utile, ma non può essere l’unico strumento. Siamo animali sociali con il bisogno di interagire e sentirci parte di un gruppo.
In un’intervista hai affermato di essere una contemporaneista e di seguire ciò che succede online. In questi anni che pensiero ti sei fatta sul digitale e sulla rete? Pensi possano offrire opportunità per abbattere le barriere sociali?
Grazie a Internet possiamo accedere al sapere ma questo non garantisce la conoscenza, è molto difficile comprendere il mondo, specialmente quando aumentano complessità e canali a nostra disposizione.
In questi anni abbiamo compreso poco o nulla, le persone non sono consapevoli della responsabilità che hanno all’interno della rete.
Ancora oggi, noto che c’è una forte deumanizzazione del personaggio pubblico, il quale viene accusato e criticato costantemente, dimostrando così inconsapevolezza nei confronti dei meccanismi del digitale.
Hai dedicato molti anni della tua vita allo studio della rete e dell’online, utilizzandolo anche concretamente per la tua professione.
Gli studi e l’attività diretta sui social media ti hanno mai portato a scontrarti con insulti e critiche poco costruttive?Quali sono state invece le opportunità che ti hanno offerto?
Vorrei ricordare che prima di tutto sono una studiosa e non mi considero un personaggio pubblico. Mi trovo in una posizione particolare, sono una ricercatrice che per amore personale ha deciso di essere presente in rete con lo scopo di divulgare determinati temi.
La potenzialità più grande che ho riscontrato è stata quella di arrivare là dove con un testo puramente accademico non mi sarebbe mai stato possibile, bypassando i canali tradizionali e parlando direttamente con le persone.
In alcune situazioni vengo presa di mira perché non corrispondo esattamente all’immagine che un certo gruppo di persone si è fatto di me. Persiste una grande leggerezza nel seguire il richiamo di un capobranco senza approfondire, però, quello che è realmente successo.
Negli ultimi mesi mi è capitato di subire attacchi online ben tre volte: qualche mese fa ho fatto arrabbiare i jazzisti; successivamente sono stata attaccata perchè ho raccontato sui social di essere stata malata e di aver mangiato solo prosciutto cotto e così i vegani si sono rivoltati contro di me; infine qualche giorno fa una persona pro palestina mi ha accusato di essere una semplice donna bianca e di non parlare di queste tematiche così importanti. Io, però, preferisco parlarne in contesti dove ci sia la possibilità di dibattere e di confrontarsi perché non ho sufficienti conoscenze, ma solo opinioni personali a riguardo.
Quindi la risposta è sì, mi capita spesso di subire insulti perché, anche nel momento in cui si hanno le migliori intenzioni, non sempre si può piacere a tutti. È davvero necessario interrogarsi sulle proprie azioni, non tuttə reagiscono ugualmente e per molte persone gli insulti e le critiche possono avere un grosso impatto.