Intervista a Francesco Marino, giornalista e digital strategist

Con Francesco abbiamo parlato di "come il digitale ci cambia". Così recita, infatti, la sua pagina Instagram, @Pillolefuturopresente, in cui tratta temi quali gli algoritmi sui social media, l'intelligenza artificiale e le differenze di genere che ancora si manifestano con le nuove tecnologie. 

Il digitale è uno strumento potente che offre diverse risorse, ma allo stesso tempo nasconde delle insidie. La società, infatti, non riesce a stare al passo con gli sviluppi delle nuove tecnologie e non ha il tempo di adottare "contromisure". Per le donne, ad esempio, i social sono un luogo in cui sviluppare una propria consapevolezza di genere ma dove allo stesso tempo si possono subire delle molestie.

Buongiorno Francesco, parliamo del tuo progetto digitale @Pillolefuturopresente, nato su Instagram nel 2021. Perché la scelta di un social media? Qual è stata l’evoluzione di questo progetto?
Ho vissuto il progetto @Pillolefuturopresente come un ritorno al giornalismo. I miei inizi sono proprio nel mondo del giornalismo, successivamente ho cominciato a occuparmi di comunicazione digitale. Ho studiato tanto, mi sono appassionato a questi temi, per poi unire le conoscenze apprese alla capacità narrativa del cronista, fino a pubblicare il mio libro dal titolo Scelti per te.
Nella fase di ricerca e raccolta del materiale, mi sono reso conto che avevo tante cose da dire ma non avevo un pubblico, così l’idea di aprire una pagina Instagram: @Pillolefuturopresente. È andata meglio del previsto: oggi è un “luogo” dove gli appassionati di digitale possono ascoltare temi di loro interesse e confrontarsi.  

Nella tua Instagram bio scrivi di voler raccontare “come il digitale ci cambia”. Se dovessi analizzare il digitale in un’ottica di genere quali sarebbero, secondo il tuo punto di vista, i rischi e quali le opportunità?
La principale opportunità consiste nell’accesso, soprattutto per le donne, a una diversa narrazione sulle tematiche di genere. Affrontando questo tema, non può che venirmi in mente la triste storia di Giulia Cecchettin: senza quella presa di consapevolezza alimentata dai social media, probabilmente, le manifestazioni successive al femminicidio non avrebbero avuto lo stesso impatto.
Dall’altro lato i social nascondono tante insidie, soprattutto per le donne, che hanno maggiori possibilità rispetto agli uomini di essere minacciate, insultate, piuttosto che molestate su queste piattaforme. Purtroppo gli uomini e le donne vivono due internet diversi, molto più sicuro per i primi. Il paradosso, dunque, è che la stessa struttura digitale che ti permette di accedere a nuove narrazioni è anche quella che ti espone ai rischi che ho appena descritto.

In uno dei tuoi post, ricordando fatti di cronaca che vedono la violenza sessuale e di genere protagonista, affronti il fenomeno del “vuoto esponenziale” analizzato da Azeem Azhar in Exponential. Cosa intendiamo quando parliamo di vuoto esponenziale? Come è connesso al fenomeno della violenza di genere online?
L’exponential gap ipotizzato da Azhar è uno spazio che si crea tra la velocità esponenziale con cui le tecnologie impongono nuove esigenze e la lentezza della società che fatica a stare al passo coi tempi. Immaginiamo, dunque, un grafico, con due linee, quella ascendente delle nuove tecnologie e quella molto più lineare dello sviluppo delle comunità. Lo spazio che si genera tra queste due linee rappresenta quel vuoto in cui il digitale ci cambia, perché agisce su di noi senza la possibilità di sviluppare contromisure.
Non vedo una relazione diretta tra l’exponential gap e la violenza di genere; piuttosto credo che la tecnologia abbia cambiato il nostro rapporto con la realtà: in questo vuoto esponenziale tendiamo a considerare le persone come dei contenuti, oggetti con cui costruiamo la nostra identità digitale.

“L’IA generativa ha un problema con la bellezza femminile, ma non è (solo) colpa sua” è il titolo di un tuo articolo pubblicato su Italian Tech di Repubblica. Qual è l’origine di questa “criticità”? Quanto gli stereotipi di genere sono presenti all’interno dell'IA e quali dovrebbero essere le soluzioni?
L’origine degli stereotipi sulla bellezza femminile dell’AI è antica e strettamente legata al fatto che la tecnologia con la quale abbiamo a che fare nella nostra quotidianità è stata creata dagli uomini. L’AI per fornire un output all’utente lavora su una mole di dati input enorme, che si porta dietro tutti gli stereotipi, non solo di genere, ma anche etnici ad esempio. Tutto il materiale di questo database, dunque, non è del mondo come vorremmo che fosse ma del mondo come era.
Ad esempio, l’AI faceva fatica a generare donne non convenzionalmente belle perché era stata “addestrata” su un materiale che presentava solo donne che rispecchiassero i classici canoni di bellezza. Tutto questo ha la conseguenza di cristallizzare il passato.  È come se nella creazione di rappresentazioni nuove non ci fosse altro che la riproposizione di concetti superati e immagini anacronistiche.
Non credo che questo problema sia risolvibile con la tecnologia di oggi. Il rischio è che, impostando degli strumenti correttivi, si generino output paradossali, eccedendo dal lato opposto, come un’immagine che raffigura i padri fondatori degli Stati Uniti come dei nativi americani. Il cambiamento, dunque, credo debba essere in primis un cambiamento culturale.

A cosa ci riferiamo quando parliamo del fenomeno ideological gender gap analizzato recentemente anche dal Financial Times? Come è connessa la dimensione digitale?
Il fenomeno dell’ideological geneder gap è stato introdotto da questo articolo del Financial Times, ma è qualcosa che la comunità scientifica aveva cominciato a studiare già da un paio di anni. Lo studio è partito da un’analisi sulle preferenze politiche di quattro Paesi, Regno Unito, Stati Uniti, Germania e Corea del Sud. Si è notata una divisione politica di genere sempre più marcata, in cui le donne sono tendenzialmente più progressiste e gli uomini più conservatori.
Anche in questo caso siamo in presenza di una commistione tra rischi e opportunità. Infatti, grazie al digitale, le donne, confrontandosi, hanno sviluppato una loro coscienza di genere; dall’altro lato diversi uomini si sono trincerati sui loro diritti acquisiti con il terrore di perdere potere. Alcuni personaggi come Andrew Tate, l’influencer misogino, hanno alimentato queste paure degli uomini, costruendo una narrazione negativa nei confronti dell’altro sesso e radicalizzando entrambe le posizioni. La divisione tra uomini e donne in Corea è talmente forte che è diventata tema di discussione rispetto al calo dei matrimoni.

Recentemente in una tua presentazione dedicata al tuo libro: “Scelti per te, come gli algoritmi governano la nostra vita e cosa possiamo fare per difenderci” hai incontrato tanti ragazzə. Cosa ti sei portato a casa dall’incontro? Qual è stata la riflessione principale condivisa con loro rispetto all’utilizzo dei social media?
Io sono dell’89 e ho un’idea di quello che era il mondo analogico, i più giovani no. Quando ho chiesto loro di farmi vedere i tempi di utilizzo – altissimi – dei loro smartphone, ho chiesto conto di queste cifre passate davanti allo screen del cellulare e di tutta risposta hanno commentato: “Altrimenti cosa facciamo quando non sappiamo cosa fare!?”.  Da un lato percepiscono che gli manca qualcosa, che c’è qualcosa al di là dei reel di Instagram, ma dall’altro sono disorientati e non sanno esattamente quale direzione percorrere. Io credo che serva uno sforzo di consapevolezza collettivo, soprattutto per aiutare i più giovani. Non c’è mai stato nella storia uno strumento intimo come il cellulare, da cui non ti puoi staccare, e che, non solo condiziona il tuo rapporto con la realtà, ma addirittura lo filtra.
La tecnologia si è sviluppata nel contesto sociale capitalistico, in cui si sperimenta un’ottimizzazione costante del tempo e delle competenze dell’individuo. Un modo di pensare la società che ha trovato un forte alleato nello sviluppo digitale. Lo abbiamo visto con il Covid dove ci siamo resi conto che era possibile fare tutto stando semplicemente a casa propria. È come se tutto quello che facciamo fosse diventato molto funzionale e finalizzato a uno scopo ben preciso: abbiamo finito di abitare gli spazi, affidando l’esplorazione del mondo al digitale.

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